Metropolis. Il progetto. 

Metropolis. Il progetto. 
(Giuseppe Mattia)

Metropolis, o verso l’incredibile
Ingranaggi inesorabili e frenetici sorretti e incitati da una musica impetuosa. Una fabbrica che ospita un fiume di anime vuote e grigie col capo chino. Tutti a formare un unico amorfo corpo. Questo l’incipit del kolossal diretto da Fritz Lang Metropolis (1927), forte di 600.000 metri di pellicola, 8 attori principali e 36.000 comparse. Più di cinque milioni di marchi investiti che mandarono in bancarotta l’UFA (Universum Film Aktiengesellschaft), la più importante casa di produzione del periodo, fondata nel 1917. Il film fu proiettato per la prima volta il 10 gennaio 1927 all’Ufa-Palast am Zoo di Berlino, dopodiché fu pesantemente alterato e ridotto, subendo mutilazioni simili a quelle generate da un crimine di guerra. Ma nel 2008, a Buenos Aires, fu finalmente ritrovato più di un quarto del film originario, materiale inedito considerato perduto fino ad allora. Metropolis fu allora ricostruito nella versione completa dalla sempre indispensabile Fondazione Friedrich Wilhelm Murnau, secondo il montaggio iniziale del 1927, nella sua durata di 153 minuti rispetto quella vista sino ad allora di 117.

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I fautori di un mito
Il progetto Metropolis nacque dalla collaborazione di Fritz Lang con sua moglie, la sceneggiatrice e scrittrice Thea von Harbou, autrice del romanzo dal quale fu poi adattata la sceneggiatura. La scenografia venne affidata a Otto Hunte, che lavorò anche nel precedente capolavoro di Lang Il dottor Mabuse (Dr. Mabuse, der Spieler) del 1922, e poi ne L’angelo azzurro (Der blaue Engel) del 1939 di Josef Von Sternberg. Come autore della fotografia Metropolis si avvalse di Karl Freund, un’eminenza nel settore, che firmò lavori come Il Golem – Come venne al mondo (Der Golem, wie er in die Welt kam) del 1920, per la regia di Paul Wegener, oltre che de L’ultima risata (Der letzte Mann) diretto da Friedrich Wilhelm Murnau nel 1924 e anche di Berlino – Sinfonia di una grande città (Berlin: Die Sinfonie der Grosstadt) di Walter Ruttmann del 1927, solo per citare alcuni tra i titoli più celebri. La protagonista di Metropolis, Maria, fu interpretata dall’allora esordiente Brigitte Helm, notata da Lang mentre lavorava come segretaria per l’UFA. Ad interpretare invece lo scienziato Rotwang è Rudolf Klein-Rogge, che lavorò con Lang in Destino (Der müde Tod) del 1921, per poi passare, l’anno successivo, ad interpretare il ruolo del dottor Mabuse. Rudolf Klein-Rogge fu anche marito della Harbou prima che la scrittrice sposasse Lang.

Il mostro capitalista
Il film è diviso in tre parti, quasi fosse un’opera lirica: Prologo, Intermezzo e Furioso. La storia si svolge nel 2026, quindi un secolo dopo la produzione di Metropolis. Nelle prime inquadrature ci viene magistralmente presentato il mondo sottostante la città che dà il titolo al film dove, in una claustrofobica fabbrica, operai senza sorrisi e speranza si affannano per sostenere quello che è il mondo in superficie, fatto di grattacieli e benessere, così come il gigante Atlante sosteneva l’intera volta celeste. Anche dopo la fine del turno in fabbrica, l’operaio continua a muoversi e ad agire meccanicamente. Tutto ciò ricorda molto le prime sequenze di un film del decennio successivo, Tempi moderni (Modern Times), ma a differenza del capolavoro di Chaplin, qui non vi è alcuna traccia di humour. C’è solo la consapevolezza di essere imbrigliati irrimediabilmente tra le grinfie del mostro capitalista. Come scenario quindi troviamo possidenti benestanti, parassiti sulle spalle affaticate di un esercito di proletari vilipesi. Nonostante sembri non esserci alcuno scampo per gli operai, una luce di speranza appare improvvisamente con la figura di Maria, che nel mondo di sopra intrattiene i figli degli operai, all’interno di un vero e proprio locus amoenus.

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La cupezza della “Città dei Lavoratori” si contrappone alla luce e all’energia vitale del “Club dei Figli”, in cui si erge la figura del protagonista maschile, Freder, figlio del dittatore capitalista Joh Fredersen. Il giovane s’invaghisce di Maria, e, come un novello Orfeo, sarà disposto a scendere nel mondo sotterraneo per ritrovare la sua Euridice. Il volto degli operai al lavoro non viene quasi mai mostrato, così da renderli il più possibile anonimi, come i soldati che fucilano il popolo nel celebre dipinto di Goya Il 3 maggio 1808. Questo è lo status quo iniziale: un’accusa indiretta al potere del Capitalismo.

La scienza e l’avanguardia al servizio dello schermo
Ma la forza devastante del film, oltre nella denuncia dello sfruttamento degli operai, sta nell’apporto tecnico e avanguardistico utilizzato dall’autore viennese, Fritz Lang appunto, definito da Godard “il simbolo stesso del cinema”. Un ruolo fondamentale per il successo del film è da attribuire senza dubbio alle scenografie che, in qualche modo, assorbono il soggetto all’interno dell’inquadratura, così come avviene nella sequenza in cui il sonnambulo Cesare de Il gabinetto del dottor Caligari (Das Cabinet des Dr. Caligari), di Robert Wiene, del 1919, rapisce la bella Jane e fugge per i tetti del villaggio. A proposito di scenografie, è doveroso porre l’accento sul cambiamento che essa subì nel corso del decennio del cinema espressionista. Molto comune era all’inizio degli anni ’20 il girare in studio o nei teatri di posa, con set ricostruiti, proprio per avere un maggior controllo sui dettagli caratteristici di quella che diventerà famosa come la scenografia espressionista. Un esempio lampante di questo modus operandi è da ricercare nel film precursore di questo movimento avanguardistico tedesco, ovvero Lo studente di Praga (Der Student von Prag) di Stellan Rye del 1913. La scenografia, così come ne Il gabinetto del dottor Caligari, viene concepita come un’opera pittorica deformata dove gli attori si muovono in maniera innaturale, con una recitazione enfatica. I muri, le strade, gli interni delle case, sono un susseguirsi di linee distorte, oblique, simboli di un’inquietudine esternata con veemenza. Spigoli appuntiti, luci di taglio focalizzati sui dettagli, strade serpentine e volti pesantemente truccati. La verosimiglianza degli ambienti non era ospite gradito in quel periodo. Solo negli anni a seguire, con l’abolizione del divieto di importare film dall’estero in Germania, si ricomincerà a guardare alle altre cinematografie, in particolare quella statunitense, e a girare all’aperto, avvalendosi di illuminazioni maestose e scenografie da kolossal. Lang ricerca quindi la regolarità, la simmetria, in un modo quasi ossessivo, ed è impensabile che autori come Kubrick non abbiano preso, come fonte d’ispirazione, proprio le pellicole del regista austriaco.1

L’irruzione dell’ Uomo-macchina
Ritornando a Metropolis, di particolare importanza è senza dubbio la figura dello scienziato Rotwang, artefice del sistema tecnologico che regge la città in superficie. Con la sua mano meccanica (tecnologia impensabile da attuare in quegli anni), e con il suo laboratorio a dir poco futuristico dotato di apparecchi e attrezzature incredibili di sconosciuta utilità, attribuisce una connotazione decisamente fantascientifica al film. Egli è mosso da sentimenti di vendetta verso il dittatore-imprenditore, Joh Fredersen, a causa di una donna, come un adirato Menelao che anela la morte di Paride. La cosiddetta punta di diamante del suo laboratorio è l’androide Uomo-macchina (Maschinen-Menschen) che prenderà poi le sembianze di Maria per scatenare, sotto l’ordine dello scienziato, una vera e propria rivoluzione civile nelle viscere della città. L’adattamento dell’Uomo-macchina alle sembianze di Maria ha luogo all’interno di un incubatore che ospita la giovane, attraverso un processo elettronico degno del dottor Victor Frankenstein, tra onde elettromagnetiche, ampolle con liquidi in ebollizione, cavi collegati ovunque, leve per azionare l’accensione della macchina infernale e cerchi concentrici di luce che attraversano il corpo del robot in attesa di raggiungere la sua forma umana (o meglio umanoide). Si tratta del primo film della storia del cinema in cui compare l’uomo-macchina, in questo caso una donna-macchina.

Metropolis

Il replicante (che non può non ricordare i personaggi di Blade Runner) inneggia alla rivoluzione violenta, senza mezzi termini, trascinando con forza tutti gli operai attraverso il perverso iter che porta alla dannazione, usufruendo della sensualità, puntando alla debolezza dell’uomo dinanzi alla lussuria fatta persona (o meglio androide). Nella visione della pellicola ci s’immerge in un caleidoscopio di effetti speciali straordinari, sovrimpressioni, simbolismi e riferimenti biblici frequenti, senza considerare un primordiale uso della tecnica stop-motion che sarà d’esempio per tutti i cineasti a seguire. Impossibile non parlare poi delle meraviglie tecnologiche del mondo in superficie, che presenta situazioni inimmaginabili anche per il nostro tempo, come aeroplani che quasi annoiati girano tra i grattacieli, strade sopraelevate a centinaia di metri dal suolo percorse da automobili e treni, e poi luci sfavillanti. La città di Metropolis inoltre ha un cuore, chiamata appunto  Macchina-cuore, ossia un congegno che è fonte di ogni energia e risorsa nella città, situato nelle viscere del complesso urbano. Esso rappresenta un marchingegno moralmente mostruoso, soprattutto per i lavoratori, che in una visione del giovane protagonista prende addirittura le sembianze del Moloch, antica divinità che si cibava di vittime sacrificali. E il chiamare in causa tale divinità non può non rimandare al capolavoro italiano di Giovanni Pastrone Cabiria (1914).

Verso il Nuovo Mondo
Nello scioglimento del film avviene la tanto attesa riconciliazione tra il capo degli operai (le braccia) e Joh Fredersen (la testa). Il finale che Lang circa aveva immaginato era troppo avanguardista: per lui la pellicola doveva concludersi con la decisione, da parte dei due giovani innamorati, di partire a bordo di un razzo per allontanarsi dalla città condannata a perire, simbolo di una ultramoderna Babilonia. E questa Babilonia condannata a perire è associabile alla cinematografia tedesca di fine anni ’20 tout court, di cui Metropolis rappresenterà il colpo di grazia, che manderà in frantumi il palazzo di cristallo eretto in quel periodo aureo del cinema mondiale, anche in concomitanza con l’ascesa del nazionalsocialismo che stava prendendo sempre più piede. Fortunatamente il talento di molti cineasti non affondò con la “nave”, infatti ci fu un vero e proprio esodo di intellettuali dell’Europa Centrale e dell’Est Europa verso gli Stati Uniti, portando seco l’esperienza, il talento visionario e una cultura millenaria, che quelli del Nuovo Mondo potevano trovare, sino ad allora, solo nei loro sogni più vivaci.

1 C’è anche un doveroso omaggio alla pellicola da parte del regista tedesco Rainer Werner Fassbinder nella miniserie televisiva da lui diretta Berlin Alexanderplatz, in particolare nella puntata intitolata Un mietitore con il potere che viene dal buon Dio. In una sequenza i personaggi di Franz e Reinhold passeggiano per le buie strade di una Berlino del 1928, quando passano davanti ad un cinema sul cui cartellone c’è proprio la locandina di Metropolis. I due non ci fanno caso, presi dai loro problemi, e continuano ad immergersi nella notte ignari della portata storica che il film avrà nei decenni (e sicuramente secoli) a seguire.

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